Forza Italia, il partito personalistico che non riesce a cambiare la sua classe dirigente

Mario Draghi ha scelto tre ministri forzisti che sono stati anche ministri nell’ultimo governo Berlusconi, quasi 10 anni fa.

pubblicato 13 Febbraio 2021 aggiornato 14 Febbraio 2021 09:01

Se la vita fosse un loop infinito da social network, questo articolo inizierebbe più o meno così: “vi sblocco un ricordo: è il 2008, Silvio Berlusconi ha vinto le elezioni e Renato Brunetta, Mara Carfagna e Mariastella Gelmini sono stati appena nominati ministri della Repubblica”.

Peccato solo che questo sia il 2021, che il governo Berlusconi IV sia finito da dieci anni e che Forza Italia, oggi, valga meno dell’8%.

Eppure, nonostante tutto, i forzisti che Mario Draghi ha scelto come ministri di un governo di unità nazionale sono gli stessi.

Secondo alcuni, questa scelta è legata al fatto che questi non fossero i favoriti del Cavaliere, leader del partito e ancora – forse – dominus incontrastato all’interno dello stesso.

Secondo altri, però, si è trattato di una mossa obbligata, dettata dal fatto che Forza Italia non ha mai effettuato un vero e proprio cambio della sua classe dirigente.

A prescindere dalle opinioni (personali o nel merito) nei confronti dei tre, il problema è evidente, e forse è anche il motivo per cui, a distanza di quasi ventisei anni dalla nascita del partito e dieci dalla sua ultima vittoria elettorale, questo continui a perdere consensi.

Dopotutto, il problema del cambio generazionale in FI viene dibattuto ormai da anni nei salotti buoni della tv italiana – ma non solo –, e le clamorose scissioni che nel tempo si sono verificate, forse, possono essere lette proprio in quest’ottica.

Quando nel 2013 Forza Italia si trovò a rinascere dalle ceneri del Pdl, Angelino Alfano, anche lui ministro degli esteri del governo Berlusconi IV, decise di non aderire. Si racconta che il Cavaliere accusò fortemente il colpo, vedendosi abbandonato da quello che per anni aveva considerato il suo erede politico.

Nel 2019, poi, è stata la volta di Giovanni Toti: anche lui negli anni visto come successore al trono di Forza Italia, e anche lui autore di una scissione. Oggi, il suo “Cambiamo!” vale circa il 2%.

Nei mesi successivi, poi, è toccato a Paolo Romani e Gaetano Quagliariello, prima dirigenti di primo piano del partito e poi passati al gruppo misto, per finire a qualche settimana fa quando, nel pieno della crisi di governo, Renata Polverini e Maria Rosaria Rossi hanno lasciato le fila del centrodestra e votato la fiducia al governo Conte II. Tutti possibili nuovi leader di partito e tutti fuoriusciti dallo stesso.

Il 19 febbraio 2020, su Linkiesta veniva pubblicato un articolo firmato da Pietro Mecarozzi nel quale si racconta che Berlusconi avesse già da tempo preso in considerazione l’idea di lasciare la leadership del suo partito. Secondo Mecarozzi, ciò non era avvenuto perché il Cavaliere non aveva ancora individuato un successore, qualcuno davvero in grado di raccogliere la sua eredità politica e guidare Forza Italia.

Oggi, a qualche ora dall’insediamento di un governo di unità nazionale, appaiono evidenti tutti i limiti di quel partito che per anni si è retto solo e soltanto sul suo fondatore, che a sua volta lo ha personalizzato e reso una sorta di club esclusivo non in grado di guardare davvero al futuro.

E se il rischio di quelle elezioni che potrebbero far scomparire Forza Italia dalla scena parlamentare può dirsi momentaneamente scongiurato, è sempre più forte il bisogno che qualcuno subentri al leader. Dopotutto, a 84 anni, non si può essere giovani per sempre.

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