Aggiustare le news è un’impresa radicale

Ecco perché ci prediamo una pausa.

pubblicato 1 Giugno 2021 aggiornato 7 Dicembre 2021 15:09

Aggiustare le news è un’impresa radicale.

Ma cosa vuol dire aggiustarle? E perché mai bisognerebbe farlo? Cosa c’è di rotto, in definitiva?

Le motivazioni le hai davanti agli occhi ogni giorno, se frequenti l’infosfera, cioè lo spazio in cui circolano le informazioni. Ovvero: i giornali, i telegiornali, le radio, le televisioni, i social media, i social network, i siti, i volantini, i cartelloni pubblicitari, i sistemi di messaggi istantanei con cui ti scambi opinioni, impressioni, chiacchiere alte o basse, piattaforme di streaming e via dicendo. In sostanza, tutto ciò che conduce messaggi di ogni genere, prodotti professionalmente o per puro diletto o per qualsiasi altra motivazione, fa parte dell’infosfera. E tutta l’infosfera è invasa da oggetti che competono per catturare la tua attenzione. 

Là fuori è tutto un contenuto

Una parte dell'archivio di Palazzo Mocenigo, a Venezia
Una parte dell’archivio di Palazzo Mocenigo, a Venezia

Si chiamano contenuti e sono intorno a noi. Quel che vedi quando accedi a un qualsiasi canale (informativo, di conversazione, relazionale) è, prima di tutto, un proliferare ininterrotto di contenuti di ogni genere: video, testuali, stories, contenuti che rintraccerai anche fra qualche anno, volendo, o che spariranno dopo 24 ore o meno, brevi, lunghi, ipertestuali, connessi, isolati. Dentro a quei contenuti ci sono anche – ma non solo – notizie e pezzi di comunicazione che giornali o aziende ritengono di produrre per raggiungerti.

È una bella rivoluzione rispetto a, diciamo, 40 anni fa, in cui lo spazio dell’infosfera era un sostanziale oligopolio. Solo poche persone potevano produrre e distribuire contenuti: 

  • chi aveva il controllo diretto dei mezzi di comunicazione
  • chi poteva permettersi di comprare costosissimi spazi pubblicitari

In poco meno di due generazioni quel paradigma si è semplicemente volatilizzato. Oggi tutti possono produrre e distribuire contenuti e raggiungere pubblici prima inimmaginabili per chi non avesse accesso alle stanze dei bottoni del vecchio oligopolio. 

Per molte persone questo è un male. Per altre qualcosa da esaltare. Se riuscissimo ad astenerci dal giudizio morale, lo vedremmo come un qualcosa che è successo e che sta succedendo.

Il costo della produzione e della distribuzione di un contenuto è in costante diminuzione: è sufficiente avere uno smartphone, una connessione a internet e una piattaforma social per poter produrre e distribuire decine e decine di contenuti al giorno.
Non è un meccanismo che si può fermare. Non si può riprodurre la precedente condizione di scarsità. 

L’occupazione della conversazione politica

La seconda cosa che vedi se frequenti non troppo distrattamente l’infosfera, è che i giornali si sono molto spesso lasciati usare per scopi altrui: lo spazio della comunicazione politica, per esempio, è stato invaso da chi ha capito che poteva usare i profili social per ottenere visibilità amplificata gratuitamente.

Se un politico dichiara una certa cosa, per il vecchio modo di pensare il giornalismo, allora quella cosa è «una notizia».

Il risultato è che messaggi provocatori di ogni genere attraversano per loro conto l’infosfera, alimentati dai meccanismi degli algoritmi delle varie piattaforme. Poi vengono intercettati dal primo giornale, che “copre” la notizia amplificandone il messaggio e da lì, a ricasco, seguono tutti gli altri, ciascuno secondo la propria linea editoriale, oppure anche senza alcun tipo di pensiero strutturato, limitandosi a riportare dichiarazioni, repliche a quelle dichiarazioni, indignazioni e via dicendo. È il meccanismo che abbiamo raccontato parlando di dichiarazionismo, trial baloon e fallacie logiche.

Il tifo, anche detto polarizzazione

La terza cosa che vedrai è che quando succede un evento, uno qualsiasi, in qualche modo degno d’attenzione superficiale – di solito veicolato ad un certo punto da qualche elemento del vecchio oligopolio, che non è affatto privo di influenza sulla realtà –, si avvicenda uno schema abbastanza prevedibile di opinioni/contro-opinioni/commenti.Nel giro di 24 ore su quel fatto (o fattoide, non è nemmeno più importante che sia successo veramente) sarà stato detto tutto quel che si poteva dire, si saranno esaurite le opinioni originali, le battute, le indignazioni, persino le polemiche e la conversazione sarà già diventata meta-testuale. Per poi passare al fatto (o fattoide) successivo. 

Ci sono elementi che ritornano periodicamente e che diventano fenomeni (qui, per esempio, parliamo della cosiddetta cancel culture). Altri che si perdono nel marasma dei contenuti, per poi riaffiorare con schemi sempre simili e sempre prevedibili. 

Una delle dinamiche più prevedibili, per esempio, è la polarizzazione.

Sul tema lavora e ha lavorato molto Walter Quattrociocchi, Professore alla Sapienza di Roma, dove guida il Center of Data Science and Complexity for Society (CDCS).

«Un ruolo centrale viene giocato dal pregiudizio di conferma (in inglese Confirmation Bias). Tale bias cognitivo fa sì che le persone tendano ad assimilare più facilmente informazioni in accordo con quelle che sono già le proprie convinzioni personali, mentre ciò che è in qualche modo “a contrasto” viene spesso ignorato», scrive Quattrociocchi insieme ad Antonio Peruzzi.

Questa attitudine fa sì che, ad esempio, sui social, le persone si frammentino «attorno a narrative condivise, dando così origine a comunità polarizzate, altresì chiamate camere d’eco (Echo Chambers in inglese). All’interno di queste camere d’eco gli utenti fruiscono di contenuti coerenti con la loro visione del mondo, sia vera o falsa l’informazione veicolata. D’altro canto, ogni contenuto avverso rispetto alla narrativa condivisa viene, la maggior parte delle volte, ignorato o schernito. Quando, infine, due comunità con credi contrastanti si trovano ad interagire, il dibattito tende a degenerare col tempo, soprattutto nel caso di conversazioni molto lunghe. Tali dinamiche sembrano essere indipendenti dall’argomento di cui si tratta (Vaccinisti-Anti-vaccinisti, Pro-scienza e Complottisti) e coinvolgono anche la sfera pubblica e il dibattito politico».

Tutto questo, giova ribadirlo, avviene indipendentemente dallo statuto di verità di un’affermazione o di un fatto. Probabilmente sarà capitato anche a te. Di sicuro è capitato a noi.

Cos’è stato fatto? 

Negli ultimi vent’anni la risposta che i giornali hanno dato a questa situazione è stata, a parte rarissimi casi, una risposta basata su due elementi:

  • quantità
  • velocità

Questi due elementi, però, per quanto si possano produrre contenuti in quantità, si scontrano contro un fatto incontrovertibile: è impossibile competere in quantità e velocità in un mondo in cui chiunque può produrre e distribuire contenuti.

Anche quando ci sono o ci sono state produzioni diverse, esse sono quasi sempre diluite in una quantità spropositata di contenuti, che puoi vedere su una qualsiasi homepage di giornale italiano, o sui corrispondenti profili social. 

Perché si è scelto di fare così? Per varie ragioni, persino difficili da elencare tutte. Proviamo a darne almeno una rapida panoramica: 

  • ragioni culturali e storiche. Essere veloci, uscire “prima” è sempre stata ritenuta una dote importante nel giornalismo; storicamente il giornalismo ha riempito spazi. Cosa vuol dire? Per esempio, che se un giornale è fatto da 64 pagine, quelle pagine dovranno essere tutte riempite, o da contenuti alti e di qualità, o da pubblicità, o da riempitivi
  • ragioni economiche. Il modello di business del giornalismo si è sempre basato su metriche quantitative. Cosa vuol dire, per esempio? Che se un giornale viene distribuito tanto, a tante persone, potrà vendere pubblicità a prezzi più alti; 
  • ragioni organizzative;
  • scarsa propensione all’investimento in ricerca e sviluppo da parte degli editori
  • rendite di posizione e altri fattori che hanno frenato il cambiamento. Per esempio, il punto di vista monolitico da cui vengono pensati, diretti, distribuiti i giornali
  • una naturale resistenza al cambiamento da parte delle persone (a volte acuita dal fatto che ci sono cambiamenti che vengono imposti per puro amor del cambiamento anziché per adeguarsi al mondo che cambia)
  • una scarsa attitudine a pensare al giornalismo come a un prodotto-servizio
  • una scarsa attitudine all’ascolto (la redazione, storicamente, è un luogo dove si pensa di produrre e costruire senso, fare ordine, dire alle persone ciò che è bene che si sentano dire. Gli ultimi 40 anni di storia hanno devastato anche questo paradigma)
  • … (potremmo continuare)

Queste ragioni e le relative scelte non hanno frenato in alcun modo significativo la crisi del giornalismo. Anzi, le crisi

Le quattro crisi del giornalismo

In effetti, si potrebbe anche continuare a fare come si è sempre fatto, se non fosse che il giornalismo soffre, contemporaneamente, di quattro crisi distinte e interconnesse.

C’è una crisi puramente economica e di modello di business, che è sistemica, riguarda tutto il mondo pubblicitario, e richiede scelte importanti (è sempre più difficile, per esempio, far convivere il modello pubblicitario con un modello generalista).

C’è una crisi di fiducia da parte delle persone nei confronti del giornalismo, puntualmente misurata, anno dopo anno, dal rapporto Edelmann.

C’è una crisi di identità: non abbiamo saputo trovare il modo di fare le cose diversamente, salvo rarissime eccezioni che esistono da troppo poco tempo per sapere se dureranno o se saranno mode passeggere.

C’è una crisi professionale, con persone pagate sempre meno, che devono acquisire competenze che un tempo non sarebbero mai state richieste a chi fa giornalismo. 

E allora paga!

La risposta più frequente – verrebbe da dire: finalmente! – in questi ultimi due anni è: ok, allora mettiamo il giornalismo a pagamento. Vuoi leggere sul digitale? Paga.
Il che può andare bene in un certo senso se serve a distaccarsi sempre di più dai meccanismi distorti del rapporto pubblicità-giornalismo: un connubio che è andato bene per 150 anni, ma che ora ha il fiato corto e andrebbe completamente ripensato.

Va meno bene se pensiamo che il giornalismo possa avere ancora un ruolo di spessore nella vita sociale. E che, per farlo, non dovrebbe essere solamente un giocattolo per chi ha disponibilità economiche. 

Col COVID, poi, non ne parliamo

Sempre Venezia, maggio 2021, un cartello che mostra tutta la confusione che c’è sul tema Covid

La pandemia ha premuto sull’acceleratore delle quattro crisi del giornalismo. Ha anche messo in evidenza perché il giornalismo-servizio serva sempre di più. Ma ha anche evidenziato tutti i limiti delle scelte fatte fin qui nel settore.

Abbiamo visto articoli su bozze, titoli con i verbi al condizionale. Opinioni sconfessate due ore dopo da opinioni contrapposte senza che si avessero elementi concreti per sceglierne una o l’altra, se non le proprie convinzioni personali. Studi ripresi e riproposti in alcuni casi senza alcuna attinenza con la realtà, molto spesso senza nemmeno gli strumenti per capirli fino in fondo.

Nella pandemia il giornalismo ha dato il peggio di sé. Ha amplificato paure e teorie del complotto, ha cavalcato sentimenti, ha fatto paura, ha minimizzato, senza soluzione di continuità.

Come tutte le vecchie istituzioni, ha dimostrato che ha grossi limiti strutturali, che vanno superati.

Un’alternativa è possibile

How to Begin-Again: An Initiation Towarss Unitary Urbanism, installazione alla Biennale Architettura 2021 di Venezia


Produrre di più e più velocemente è stata la prima risposta. Far pagare e chiudere i contenuti la seconda.

Ma non sono le uniche. Ci sono alternative. Sappiamo che non si può premere un interruttore e cambiare tutto, che ci sono dinamiche che richiedono tempo e pazienza, che il cambiamento si ottiene su scale plurigenerazionali. Ma sappiamo anche che a volte servono scossoni radicali che poi, pian piano, percolano nell’ecosistema. 

Si può fare meno, ridurre le emissioni tossiche, i contenuti che inquinano l’infosfera, che non hanno alcun valore aggiunto per le persone. E al tempo stesso ci si potrebbe adoperare, in questa operazione ecologica digitale, per abilitare le persone. Nel senso più alto del termine: renderle abili alla comprensione di uno spazio, l’infosfera, che sarà sempre più importante negli anni a venire. 

Sappiamo che sarebbe sempre più necessario un approccio che negli USA si chiama media literacy, e che noi possiamo tranquillamente tradurre con educazione ai media. Le persone dovrebbero conoscere il funzionamento di un algoritmo social, delle tecniche base di comunicazione; dovrebbero sapere cosa significa “linea editoriale”, come si costruisce un pezzo giornalistico.

Il giornalismo non può sostituirsi all’istruzione, in questo approccio. Ma potrebbe cambiare approccio, trasformandosi in un servizio che mette le persone al centro; che si offre con trasparenza in tutti i suoi meccanismi produttivi, ammettendo e correggendo gli errori; che vede come stakeholder primari le cittadine e i cittadini, che hanno bisogno di essere informati per prendere decisioni sempre più consapevoli.

Per quasi un anno, qui abbiamo condotto una rubrica che si chiama fixing news. Abbiamo cercato prima di tutto di recuperare i temi di discussione che andavano per la maggiore un anno prima per contestualizzarli oggi.

E per vedere quanto siano attuali o ripetitivi, di valore o meno per le persone.

Se hai seguito la nostra rubrica, o se vuoi recuperarla, avrai scoperto (o scoprirai) che di solito il tema o i temi del giorno sono devastanti per il tuo tempo. Le polemiche del giorno, le indignazioni, le mezze notizie, le notizie che non lo sono affatto, i titoli tirati via o quelli pensati per accaparrarsi due click in più ti portano via energie che non ritornano.

Ma soprattutto, sono elementi che inquinano l’infosfera, che ti distraggono dalle questioni che contano che contano veramente.

Cos’è che conta veramente?

Conta avere gli strumenti per interpretare la dichiarazione di chi fa politica senza concentrarsi sull’ondata di tifo che genera ma inserendola in un meccanismo in cui poi chi ci rappresenta debba essere chiamato alle proprie responsabilità, per quel che dice, per quel che fa.
Conta concentrarsi su temi di lungo periodo.
Conta parlare con le persone, uscire dagli schemi, smettere di fare quel che si è sempre fatto per provare altre strade, non battute.
Conta adoperarsi per dare alle persone informazioni di valore, pensate per durare nel tempo e non per perdere di significato dopo mezz’ora.

Per fare tutto questo, però, non si può continuare a lavorare nel frullatore di quel che si è sempre fatto. Bisogna fermarsi, riflettere e poi ricominciare.

E allora pausa!

Ecco perché non solo Fixing News e tutto il progetto di Blogo.it si prendono una pausa di qualche mese. Ci rileggeremo a ottobre del 2021, con un progetto radicalmente rinnovato.

Perché per aggiustare le news ci vogliono trasformazioni radicali.

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L’immagine di copertina è un fermo immagine tratto dal documentario sul giornalismo Slow News

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