L’inizio di tutto, la fine di qualcosa

Inizia il Covid, anche se ancora non lo sappiamo, ma finisce anche il caso Cucchi e, sostanzialmente, i Gillet Gialli.

pubblicato 19 Novembre 2020 aggiornato 20 Novembre 2020 21:07

Questa è l’ottava puntata di Fixing News, un progetto di Blogo in collaborazione con Slow News. Esce una volta a settimana e se vuoi saperne di più puoi cliccare qui per leggere il “manifesto”. Se invece vuoi ascoltare questo articolo in formato Podcast, lo trovi subito qui sotto, (ed anche su Spreaker, Spotify e sulle altre piattaforme). Se hai suggerimenti, idee, richieste per le prossime puntate, scrivici a fixingnews@blogo.it.

Tra il 12 e il 18 novembre del 2019, la notizia della settimana avrebbe dovuto essere una notizia che nessuno diede, perché nessuno se ne accorse. Se ce ne fossimo accorti, e se avessimo saputo che cosa avrebbe significato per il mondo intero, sarebbe stata la notizia del secolo. Il 17 novembre 2019, infatti, stando a quanto riportava Il South China Morning Post a marzo, è il giorno in cui è stato infettato dal Sars-Cov-2 il primo paziente, un 55enne di Hubei. Probabilmente non fu lui il paziente zero, ma pensare che tutto iniziò da una persona mette le vertigini.

Così come mette le vertigini il fatto che i giornali italiani, un anno dopo, si siano buttati a pesce su uno studio tutto da dimostrare secondo il quale il COVID-19 sarebbe stato da queste parti fin dall’estate 2019.

Il Prof Francois Balloux (UCL Genetics Institute) ha scritto un thread su Twitter che si chiude così (la traduzione è nostra): «Questo è il tipico caso che mostra tutto quel che c’è di sbagliato nella scienza (e nel giornalismo che parla di scienza) nell’era del COVID-19. Forti dichiarazioni sostenute da prove inconsistenti vengono riportate ovunque senza il necessario controllo e senza la necessaria analisi di un insieme più ampio di prove».

Noi chiamiamo questo fenomeno Credere di Sapere e gli abbiamo dedicato una serie su Slow News.

In ogni caso, quella settimana di metà novembre una notizia riguardante una malattia temibile arrivò lo stesso, e sempre dalla Cina. Non era un coronavirus, anzi, non era proprio un virus ma un batterio: la peste.

Il grande tema che affollava le prime pagine, però, era un’altra emergenza che, a ben guardare, è un’emergenza da decenni e che il 14 novembre 2019 fece paura abbastanza da scalzare il caso Ilva. A distanza di un anno così allucinante quasi non ce lo ricordiamo, ma era l’acqua alta a Venezia, che fece due morti e centinaia di milioni di danni.

E intanto, che succedeva in giro per il mondo?

In Medio Oriente il conflitto fra Israele e milizie armate palestinesi (in questo caso il Jihad Islamico Palestinese) si infiamma tra razzi sparati dalla Striscia di Gaza e bombardamenti israeliani; a Hong Kong tornano ad esserci aspri scontri. Il 18 novembre i manifestanti “pro-democrazia” si asserragliano in università e subiscono uno dei più duri attacchi da quando erano iniziate le rivolte. Anche La Jonquera, al confine tra Francia e Spagna, diventa teatro di scontri: qui, attivisti indipendentisti catalani occupano l’autostrada e vengono dispersi dalla polizia francese; in Bolivia, intanto, si continua a manifestare e pure in Francia, dove compie un anno il movimento dei Gilet Gialli. Invece, in Cile viene annunciato un referendum per abrogare la costituzione di Pinochet, che poi, giusto un paio di settimane fa, è stata abrogata sul serio.

E in Italia? Fu la settimana della nascita del movimento delle sardine, che ormai sono un po’ passate di moda, forse anche a causa di quello che abbiamo chiamato distanziamento sociale (sarebbe stato meglio: distanziamento fisico. Non è solo una questione terminologica), sono un po’ passate di moda, fra facili entusiasmi, polemiche, memi, interviste, personaggi-meteore, scissioni, ancora polemiche.

Intanto, Natale si avvicinava, come ora, e visto che ancora non c’era il coronavirus a fare da magnete, iniziavano le altre polemichétta, quelle tipiche del periodo. Dopo i crocifissi di cui abbiamo parlato qualche puntata fa, venne il turno delle recite di Natale annullate per “non offendere i bambini stranieri”. Come ogni anno, peraltro, si tratta di bufale o di notizie totalmente decontestualizzate.

Non c’è solo Cucchi

Tra le cose che ci fecero discutere di più sui social ci furono anche le violenze in carcere.
Il motivo fu il rinvio a giudizio di alcuni agenti della polizia penitenziaria del carcere di San Vittore, a Milano, ma soprattutto, una condanna storica: quella di tre poliziotti del caso Cucchi, condannati a 12 anni per le violenze contro Stefano.

Le violenze “di Stato”, come tante altre gravi problematiche del nostro paese (e non solo), finiscono sulle prime pagine dei giornali e nei trending topic dei social soltanto in concomitanza di casi esemplari e particolarmente violenti — Cucchi e Aldrovrandi, per esempio — anche se in realtà sono un problema grave, anche quando non fa notizia.

Già nel 2003, solo per restare all’epoca di internet, un rapporto di Amnesty dichiarava che la situazione nel nostro paese era molto delicata, ma purtroppo le cose nel 2020 non vanno molto meglio e il coronavirus ha soltanto aggravato le cose, come dimostra l’approfondito XVI rapporto dell’associazione Antigone. Sono più di 200 pagine e vale più di tanti articoli di giornale sul tema.

C’è un’altra dinamica dei processi di informazione che è interessante notare in questo caso.

In seguito alla sentenza sul caso Cucchi, infatti, Matteo Salvini (che allora era Ministro dell’Interno), a chi gli chiese un commento sulla sentenza e le scuse alla famiglia Cucchi, rispose così (il video integrale è qui): «Sono vicinissimo alla famiglia, la sorella l’ho invitata al Viminale. Se qualcuno ha usato violenza ha sbagliato e pagherà. Questo testimonia che la droga fa male, sempre e comunque, e io combatto la droga in ogni piazza»«Ma che c’entra», disse il giornalista, «mica è morto per la droga, Cucchi è morto per le botte». E Salvini rimase sul suo mantra: «Sto dicendo che condanno e sono vicino. Per quello che mi riguarda, da senatore e da papà combatterò la droga in ogni angolo d’Italia».

Siamo di fronte a una delle tecniche di comunicazione più frequenti che vengono utilizzate dai politici: rispondere a una domanda cambiando argomento e aggiungendo altro, che c’entra solo relativamente e che contenga allusioni o provocazioni o anche qualcosa che possa diventare un titolo forte. Quando si fa, per come funzionano i media, si ha la garanzia che partirà il carosello: dichiarazione riportata, polemiche, accuse, altre polemiche e via di seguito.

L’ecosistema dell’informazione è facile da inquinare. Quella volta, il risultato fu che Salvini si guadagnò una querela per diffamazione da parte di Ilaria Cucchi e arrivò la prevedibile infornata di contenuti, opinioni e polemiche inutili. Quasi un anno dopo, la procura ha chiesto l’archiviazione«L’ex ministro dell’Interno aveva detto che la droga fa male», scrive Adnkronos. «Secondo i pm del pool reati informatici mancano gli elementi, sia quello oggettivo che soggettivo, per la diffamazione».

Intanto, mentre queste dinamiche vengono ridotte a fatti singoli e si dà spazio a ogni dichiarazione provocatoria di opinionisti o, ancor peggio, di politici, il tema portante esce dalla nostra visione di insieme.

Un passo più lento, come quello che usiamo in Slow News e su questa rubrica, ci permette di dedicare al tema della sicurezza, sia in carcere che fuori, di come questa viene gestita dalla polizia e di come invece si potrebbe gestire in altri modi un articolo speciale del Mondo Nuovo.

Il dichiarazionismo, il trial baloon e le fallacie logiche

Il trial baloon è una tecnica che prevede di far arrivare ai media certe informazioni per osservare la reazione delle persone. Nell’era social, si accompagna

  • al dichiarazionismo condito con provocazioni. Commenti e dichiarazioni “forti” su qualsiasi fatto di cui “parlano tutti”, con il chiaro scopo di ottenere visibilità
  • alle provocazioni visive tipo farsi fotografare con un fucile in mano e poi mettere la foto sui social
  • ad altre tecniche di distrazione, che spesso utilizzano fallacie logiche, tipo commentare un fatto con un argomento fantoccio. Per esempio, A dice: «Dovremmo depenalizzare il consumo di eroina» e B risponde: «Il signor A. ci vuole tutti morti di overdose!». Il tutto, ovviamente, senza citare il caso virtuoso del Portogallo che sta ottenendo ottimi risultati nella lotta alla droga proprio grazie alla depenalizzazione del consumo).
    Oppure commentare un fatto con un altro argomento solo apparentemente correlato, in un’operazione di benaltrismo, come nel caso che abbiamo citato sopra

Le fallacie logiche sono tantissime. Se non le conosci e se vengono utilizzate regolarmente in comunicazione e nell’informazione, potresti cascarci anche tu.

La combinazione di dichiarazioni, trial baloon e fallacie logiche è mortale per l’ecosistema dell’informazione: alla fine il risultato è che non sai più a chi credere. Ecco perché bisognerebbe semplicemente smettere di riportare dichiarazioni, a meno di non accompagnarle, all’atto della pubblicazione, con adeguata verifica.

Cosa puoi fare tu, lettrice o lettore? Puoi drizzare le antenne e fare attenzione. Che non vuol dire non fidarti di nessuno, ma almeno non farti prendere in giro.

Acqua altissima

La notte tra il 12 e il 13 novembre del 2019, in piazza San Marco a Venezia il livello della marea raggiunse l’altezza record di 187 centimetri. In realtà in passato è anche successo di peggio, ma solo una volta e per un’alluvione — quella del ’66 — che è passata alla storia.

In quei giorni di un anno fa il mondo intero rimase sbigottito di fronte alle foto e ai video della città sommersa e dei danni, ingentissimi, causati dall’acqua. Eppure, a distanza di un anno, nonostante quella ondata eccezionale abbia in fondo portato al completamento dei lavori del MOSE, Venezia sta sempre peggio. Dopo quel colpo durissimo che causò milioni di danni, è arrivato il coronavirus, ma soprattutto, sono spariti i turisti e tante, tantissime attività commerciali rischiano di non riaprire mai più.

Nel frattempo, mentre la città è vuota, e per qualche verso sta meglio, le cause che la stanno portando anno dopo anno al lento affondamento non sono certo risolte, e spesso non sono nemmeno affrontate. Ma siccome è qualcosa che succede lentamente, ogni giorno, sono cause che difficilmente riusciranno a guadagnarsi l’attenzione che meriterebbero sulle prime pagine dei giornali, sui titoli “virali”.

Rabbia gialla

Te li ricordi i Gilet Gialli? Anche da quei giorni sembra passato un secolo. Il movimento nato in Francia per protestare contro l’aumento dei prezzi del carburante e il caro-vita arrivava al suo primo anno di vita dopo aver infiammato – letteralmente – Parigi e molte altre città francesi. Quella settimana del novembre 2019 i Gilet Gialli si ritrovavano in piazza.

Fu una delle ultime volte che quel movimento tanto potente quanto disordinato riuscì a conquistare le prime pagine dei giornali internazionali, anche se in realtà non è ancora morto ufficialmente, nonostante il lockdown lo abbia messo a tacere per mesi. Già all’epoca, in ogni caso, se ne sentiva parlare sempre meno. In un mondo dell’informazione bulimico e iperproduttivo succede spesso così: se di una cosa ne parli solo quando è eclatante e “nuova”, alla decima volta, anche se nessuna delle problematiche che la provocano si è sopita, dal punto di vista mediatico non è più interessante. E quindi non se ne parla più

I motivi della protesta dei Gilet Gialli, come molte delle dinamiche sotto cui covano problemi enormi, sono ancora lì e anzi, stanno peggiorando vistosamente a causa del coronavirus. E infatti chi cavalcava la “rabbia gialla“ all’epoca si sta preparando a ricavalcarla. Dal punto di vista informativo, invece, per ripararle della crisi centro-periferia, – che probabilmente è uno dei temi più importanti del presente – dovremo probabilmente aspettare un’altra protesta violenta.

Cancella il deb… ah ops.

Un anno fa venne fuori che l’Italia è terza al mondo per il debito pubblico.
Ovviamente, per il mondo vecchio questa era una notizia terribile. Ma dopo l’emergenza COVID-19, forse, stiamo riscoprendo che il debito è una convenzione – come ha spiegato David Graeber – e che gli stati devono investire anche a debito per migliorare la vita delle persone nel presente e nel futuro.

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