Piazza Solitudine

Mentre finisce la quarantena a Wuhan, l’epicentro della prima ondata, in USA Biden incassa gli endorsement pesanti di Obama e Sanders, mentre papa Francesco porta la croce da solo, per la prima volta in Vaticano, e le librerie indipendenti diventano loro malgrado un campo di battaglia

15 Aprile 2021 14:04

Se la seconda settimana di aprile del 2020 fosse una fotografia, probabilmente sarebbe quella di papa Francesco in piazza San Pietro mentre celebra la Via Crucis. Oltre al fatto che quella fu la prima volta nella storia in cui la celebrazione pasquale della passione di Cristo si svolse in Vaticano (di solito si fa al Colosseo, in territorio italiano), quella foto rappresentava soprattutto la solitudine totale, una sensazione che, oltre al papa, in quelle sere del primo lockdown provavamo in molti.

Ma la settimana di Pasqua del 2020 fu anche molte altre cose. Dal punto di vista del coronavirus, che ormai arrivava alla sua quarta settimana di totale dittatura mediatica, quella fu la settimana in cui a Wuhan, l’epicentro della prima ondata e, parrebbe, il luogo d’origine stessa del virus, finì la quarantena. Quanto fa strano pensarci ora, per noi, che invece ci siamo ancora immersi completamente? In ogni caso, se ti interessa sapere che cosa ne è dei cittadini di Wuhan, la BBC ci è tornata dopo un anno dall’inizio della crisi.

Nel frattempo, l’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump minacciava di sospendere i finanziamenti all’Organizzazione Mondiale della Sanità, rea, secondo Trump ma non solo, di essere filo-cinese, mentre in Gran Bretagna Boris Johnson usciva finalmente dalla terapia intensiva, prima, e poi anche dall’ospedale. Intanto, ad ascoltare Gramellini che lo scrive nella sua rubrica sul Corriere della Sera, «mentre accenna ad abbassarsi la curva dei caduti, sale in modo devastante quella dei disoccupati».

Era vero? In Italia in realtà non proprio, visto che controintuitivamente il mese di aprile fece segnare il tasso più basso di disoccupazione dal 2007 ma, contemporaneamente, il numero degli occupati si abbassava. Come è stato possibile? C’entrava la popolazione inattiva, che con il lockdown aumentò parecchio . E nel Mondo? La risposta, come sempre, non è semplice da dare, soprattutto “live” come cercava di fare Gramellini nella sua rubrica. Oggi, a un anno di distanza, possiamo capirne qualcosa di più, ma più che con una rubrica di poche decine di caratteri su un giornale, meglio leggersi direttamente il report dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro.

A livello europeo, intanto, le discussioni per trovare un accordo sulle soluzioni per uscire dalla crisi economica innescata dal coronavirus proseguivano a fasi alterne. Mentre negli Stati Uniti tutto lo spazio che non è dedicato al COVID — New York in quei giorni diventa il centro mondiale dell’epidemia — è dedicato alla corsa delle primarie democratiche, che quella settimana vide una svolta: Bernie Sanders infatti, l’unico candidato alternativo a Joe Biden, si decideva a dare il suo endorsement a Biden per le presidenziali americane, e così anche l’ex presidente Barack Obama. In tutto il mondo, nel frattempo, il bene di prima necessità più richiesto, e quindi meno trovabile di quei giorni, era la carta igienica. Che tempi.

Intanto nascevano e si diffondevano come funghi nuove bufale sul Covid, spesso legate a un altro argomento molto in voga presso i complottisti di tutto il mondo: il 5G. Per qualche ora si parò anche di una potenziale previsione presente in Ritorno al futuro, che secondo alcuni avrebbe preconizzarto il distanziamento fisico di questi mesi. Ma anche questo, alla fine, non era vero.

Infine, sul fronte big company: mentre iniziano a vedersi i primi risultati impressionanti dell’effetto coronavirus sul business di Amazon, che nelle prime settimane di pandemia ha aumentato sensibilmente i suoi introiti – e con essi la ricchezza del suo proprietario, Jeff Bezos – di circa 24 miliardi di dollari. Non solo nonostante la pandemia, ma direttamente grazie alla pandemia, Amazon annuncia di voler assumere 75mila lavoratori negli Stati Uniti, mentre in Francia, dove proprio in quei giorni l’Antitrust ordina a Google di pagare gli editori per le anteprime pubblicate sulle sue pagine (ti ricordi la polemica?), un tribunale decide che Amazon in Francia potrà consegnare solo beni essenziali.

Tra questi non ci sono i libri. Ma di librerie, in quei giorni, non si parlava soltanto per questo. In Italia, infatti, il governo Conte decide che possono aprire i punti vendita specializzati in libri, siano essi librerie di catena siano librerie indipendenti. È un gesto simbolico? Forse, ma non tutti sono contenti e molte librerie decidono di non aprire, anche se il pubblico che legge della diatriba sui giornali probabilmente non ha mai capito perché.

La battaglia delle librerie indipendenti

La seconda settimana di aprile del 2020, quella di Pasqua, è anche quella di uno scontro frontale. Quello tra le piccole librerie indipendenti e la politica, uno scontro dietro al quale appare l’ombra di un problema che è troppo poco rappresentato dai media mainstream, che anche quando se ne occupano lo fanno soltanto in situazioni estreme o emergenziali. La crisi, vera o presunta, delle librerie indipendenti.

Se frequenti già da un po’ queste pagine, puoi già capire il perché questo è un argomento che non riesce a emergere sulle pagine dei media mainstream. Si tratta infatti di una dinamica troppo complessa per essere relegata a qualche titolo urlato e che, proprio per questa sua complessità, non si presterebbe — se non nella sua versione estremamente semplificata e banalizzata — a generare il classico clima polarizzato e divisivo, tipico del tifo da stadio, che è invece così adatto per veicolare contenuti il cui scopo è generare emozioni e trasformarle in click.

La realtà delle librerie indipendenti, invece, è complessa, richiede:

  1. la possibilità di avere il tempo per mettere in dubbio alcune dinamiche che su due piedi ci sembrano vere,
  2. la capacità di studiare il quadro generale e la sua evoluzione nel tempo
  3. la disponibilità a mettere in dubbio alcuni dei propri punti di partenza e, soprattutto,
  4. lo spazio fisico o digitale per poter scrivere tutto ciò.

Su Slow News, dove ci prendiamo sia il tempo che lo spazio necessari per addentrarci in dinamiche complesse come questa, abbiamo dedicato a questo argomento una intera serie di sei episodi (60mila battute in tutto), intitolata Piuttosto mi Amazon e scritta da Andrea Coccia, che puoi trovare qui. Un altra interessante analisi del problema la puoi trovare su Internazionale scritta da Claudio Morici.

Torniamo alla settimana dell’anno scorso e a quel che successe a quei tempi. Eravamo a un mese circa dall’inizio del lockdown della prima ondata e le attese erano tutte per il decreto del 10 aprile, che avrebbe sancito nuove regole, decretato la continuazione di alcune scelte e chiusure e riaperto altre attività. Tra queste ultime, per l’appunto, c’erano le librerie. L’11 aprile, a DCPM già pubblico, il ministro dei beni culturali Dario Franceschini rivendicò su Twitter la scelta del governo, ribadendo come non si trattasse di una scelta simbolica, «ma il riconoscimento che anche il libro è un bene essenziale».

Solo poche ore prima, però, tante voci si erano alzate contro quella decisione di riapertura e quelle voci erano paradossalmente proprio quelle delle librerie indipendenti, contrarie al provvedimento. A riassumere e canalizzare bene quella protesta fu per esempio Francesca Chiappa, di Hacca edizioni e della libreria Kindustria di Matelica in provincia di Macerata, che scrisse un lungo post su Facebook in cui spiegava perché, contrariamente, alle decisioni del governo, la sua libreria no avrebbe aperto.

I motivi elencati da Francesca Chiappa erano circostanziati all‘epidemia e riguardavano soprattutto la sicurezza e la salvaguardia della salute, sia dei lavoratori che dei dipendenti, e puntavano il dito contro la volontà della politica di usare le librerie come simbolo nel momento di emergenza, ma di non aver fatto mai nulla di reale per proteggerle.

«Chi ha immaginato e previsto la riapertura dei nostri spazi lo ha fatto perché non conosce il ruolo che svolgono questi “presidi della cultura”» Così scrisse Francesca Chiappa nel suo post. Dentro questa frase, se ci si prende il tempo di indagare il contesto — soprattutto precedente alla pandemia — in cui la “crisi” delle piccole librerie si innesta.

Se ci si prende la briga di unire i puntini che emergono da quel contesto (come abbiamo fatto, appunto, in Piuttosto mi Amazon), si può individuare la punta dell’iceberg del vero problema dell’editoria indipendente in Italia, un problema scarsamente rappresentato dal giornalismo italiano e che non è Amazon, bensì che le leggi sull’editoria e sul mercato del libro tutelano interessi che non sono quelli degli indipendenti, ma quelli delle grosse concentrazioni editoriali, dei grandi gruppi a filiera unica, che da decenni dominano il mercato. Una realtà troppo complessa — e ogni tanto un po’ scomoda sia per editori che per giornalisti — per essere rappresentata dai media tradizionali mainstream.

A distanza di un anno dal primo lockdown, nonostante l’argomento sia praticamente sparito dai media tranne nel momento della pubblicazione dei dati annuali dell’AIE, le librerie non hanno mollato il colpo. Certo, c’è chi ha dovuto chiudere, ma c’è anche chi ha rilanciato, chi ha innovato e chi ha continuato a costruire tessuto sociale intorno a se, resistendo alla crisi e ponendo le basi per sopravvivere sia alla crisi del covid che a quella più antica del commercio librario.

A distanza di un anno da quei giorni, infatti, le librerie indipendenti stanno meglio del previsto, ma non tanto per l’attenzione che la politica ha dato loro, che come abbiamo visto è stata abbastanza misera e, anche quando c’è stata, è stata tutto sommato simbolica, quanto per la loro capacità di adattamento, per il loro radicamento nelle comunità in cui esistono, per la loro inventiva (in questi mesi per esempio è nato il progetto Bookdealer) e abnegazione, che ha portato decine di librai e libraie a spostarsi in bici per portare i libri praticamente casa per casa.

«La libreria di quartiere (dati dell’Associazione Italiana Editori) è uscita dai mesi delle chiusure meno ammaccata rispetto ai grandi venditori», scriveva a marzo di quest’anno Dario Ronzoni su Linkiesta, mentre, continuava «Alcuni store, nella stessa Milano, hanno dovuto chiudere». E anche un libraio come Marco Mogetta, che ha un blog sul Fatto Quotidiano, a gennaio, poteva permettersi di iniziare l’anno con ottimismo.

Questa è la nuova puntata di Fixing News, un progetto di Blogo in collaborazione con Slow News. Esce una volta a settimana e se vuoi saperne di più puoi cliccare qui per leggere il “manifesto”. Se invece vuoi ascoltare questo articolo in formato Podcast, lo trovi subito qui sotto, (ed anche su Spreaker, Spotify e sulle altre piattaforme). Se hai suggerimenti, idee, richieste per le prossime puntate, scrivici a fixingnews@blogo.it.

Attualità