Pandemia, quando è partita la paura

Pazienti zero che non lo erano, notizie che prima lo erano eccome che passano inosservate e un ragionamento sui pericoli derivati da una percezione sbagliate della realtà indotte dai media

24 Febbraio 2021 16:16

Il 18 febbraio del 2020, l’emergenza per il coronavirus era già diventata una questione internazionale, ma non era ancora esplosa la pandemia, né a livello mediatico né a livello psicologico. Eravamo ancora tutto sommato tranquilli e quello che avremmo vissuto di li a qualche settimana non era ancora nemmeno una possibilità lontana nel nostro immaginario.

A livello mediatico, il giorno zero della pandemia sui media lo possiamo individuare nella mattina del 22 febbraio, quando nelle edicole arrivarono le prime copie dei quotidiani che, per la prima volta, avevano titoli da guerra. «il Nord nella paura» titolava Repubblica; «Il contagio spaventa l’Italia», faceva eco La Stampa; «Un morto in Veneto», rilanciava il Corriere e gli altri andavano al seguito. Il giorno prima era morta la prima persona italiana contagiata dal virus, in Veneto.

Intanto, qualche giorno prima, dalla Cina arrivano sempre più insistenti le prove sulla repressione del dissenso sul coronavirus, uno dei 35 italiani a bordo della nave Diamond Princess – una delle navi da crociera “infette” che tanto ci avevano colpito a livello di immaginario -, risulta positivo al coronavirus, mentre altre due persone che erano risultate positive nella stessa nave muoiono per il coronavirus. In giro per il mondo, nel frattempo, lo stigma verso la Cina cresce: la Russia decide di vietare temporaneamente l’ingresso nel paese a tutte le persone con nazionalità cinese e l’OMS parla per la prima volta dei rischi di stigma sociale diffusi in seguito al COVID.

In quei giorni, l’attenzione mediatica al virus aveva iniziato ad essere totalizzante e le notizie che non c’entravano con il coronavirus, che pure, come ovvio, continuavano ad arrivare, ci passavano veloci davanti agli occhi mentre la nostra attenzione si concentrava sulla malattia che stava per esplodere e che avrebbe condizionato le nostre vite per tutto l’anno, anche se ancora chiaramente non lo potevamo nemmeno immaginare.

Tra le cose più importanti che ci siamo dimenticati, e che senza il coronavirus ci avrebbero tenuto impegnati per settimane, ci furono le notizie pazzesche sul mercato delle auto in Cina, messo letteralmente in ginocchio dal lockdown militare attuato dal governo cinese e che registrò un calo record del 92% sulle vendite nella sola prima metà di febbraio. Mercoledì 19, intanto, ad Hanau, in Germania, un uomo uccise dieci persone prima di togliersi la vita. Fu un attentato terroristico di matrice xenofoba, un ulteriore segnale di una dinamica inquietante che mediaticamente di solito fa sempre meno rumore di un attentato di matrice islamista.

Nel frattempo, mentre il terrore per il COVID-19 si allarga a macchia d’olio ben oltre le zone rosse decise dal governo e riguardanti le aree “rosse“, messe in totale quarantena, anche il processo ad Harvey Weinstein, al centro del più grosso scandalo della storia recente di Hollywood, il cosiddetto Me too, prosegue e il produttore viene dichiarato colpevole di alcuni dei reati, ma viene scagionato per altri, i più gravi, quelli che parlavano di aggressioni sessuali predatorie. Negli stessi giorni, Renzi continua ad attaccare la maggioranza e iniziamo a sentire parlare di Mario Draghi come una possibile guida di un governo trasversale.

Nonostante il COVID arrembante, alcune notizie riuscivano comunque a occuparci molto più tempo e spazio di quanto meritavano. L’esempio più importante in quei giorni furono le 223 persone che vengono denunciate per aver usato un dispositivo per vedere illegalmente i canali tv a pagamento. Ci fu un discreto panico, te lo ricordi? Intanto le prime partite di campionato venivano rinviate a causa della pandemia. Ancora non potevamo immaginare né lo stop del campionato che sarebbe arrivato di li a poco, né che si arrivasse a disputare un intero campionato a porte chiuse. Ma, anche a quello, ci siamo abituati.

Per uno stranissimo effetto di doppia distorsione temporale, pensare che esattamente un anno fa sia cominciato tutto fa venire le vertigini. Sembra l’altro ieri, e contemporaneamente sembra che siamo in questa situazione da anni. Ci sono tanti elementi che hanno contribuito a questa strana sensazione, una specie di effetto doppler della memoria

Nel frattempo, dopo dodici mesi di bombardamento mediatico senza quasi soluzione di continuità sulla diffusione del virus, sui morti, i contagiati, i decreti del governo, i divieti e le riaperture, una cosa sicuramente la possiamo dire senza timore di sbagliare: nel corso di questi dodici mesi ci siamo abituati, anche a causa di un certo modo di dare le notizie, a una situazione che fino a un anno e un giorno fa ci avrebbe fatto pensare a un romanzo distopico e a un incubo ad occhi aperti.

L’escalation della malattia e delle sue conseguenze ci ha portato, come la famosa rana messa nella pentola con l’acqua fredda che si riscalda piano piano, a non renderci quasi conto del fatto che ci stavamo abituando a una tragedia. I primi giorni di questa pandemia, esattamente un anno fa, furono caratterizzati da pochissimi morti, eppure, a causa del timore che stava crescendo da settimane in seguito alle notizie poco chiare che arrivavano dalla Cina, bastarono a terrorizzarci.

Ora, che da ormai mesi siamo arrivati a una sorta di plateau che vede morire centinaia di persone al giorno, quella paura non è cresciuta allo stesso ritmo del numero dei morti. Tanto che questa terrificante seconda ondata che stiamo vivendo ora, e che è numericamente molto più grave e mortifera della prima, non ci sta colpendo l’immaginario come quella prima. Il sentimento di strazio e di paura è stato sostituito dal fastidio e dall’insofferenza verso le misure di contenimento, dal lockdown parziale (che è molto meno stringente di quello che di lì a poche settimane ci stava piombando addosso un anno fa) al coprifuoco.

È proprio vero, dunque, che ci si abitua a tutto? Non proprio. Ma è senz’altro vero che il vortice al rialzo che fa alzare i toni della comunicazione e che è tipico dei cosiddetti hype genera un problema serio e che si aggrava sempre di più: la percezione di una dinamica risulta sempre di più alterata rispetto alla sua dimensione reale. È una dinamica che accade su moltissimi argomenti e che dipende in larga parte da come la stampa e i media se ne occupano. Se dovessimo estrarne una legge matematica potremmo dire tranquillamente che la percezione di una dinamica è direttamente proporzionale a quanto se ne parla e non più alcun rapporto sulla reale gravità o sulla reale diffusione di quella dinamica nella realtà.

Un esempio su tutti? La percezione del multiculturalismo in Italia è sproporzionata alla sua reale portata, tanto che per metà degli italiani, se gli chiedono quanti musulmani ci sono in Italia risponde che crede che rappresentino tra il 16 e il 24 per cento, mentre nella realtà sono soltanto il 3 per cento. Lo stesso discorso vale per l’immigrazione, che sarebbe ampiamente sovrastimata da una grande fetta degli italiani.

Perché? L’Eurispes spiega così il fenomeno e, come anticipato, c’entrano i media: «Il ruolo dei media nell’influenzare, quando non plasmare almeno parzialmente, l’orientamento degli italiani sembra senza dubbio decisivo, soprattutto nell’àmbito di temi che toccano la sfera emotiva, esaltando paure, ma anche pregiudizi e sospetti. Molto raramente le questioni costantemente sotto l’obiettivo di televisione, giornali e Social Network non vengono di riflesso sentite dai cittadini come cruciali, crescenti, spesso anche emergenziali».

Perché ne parliamo proprio oggi? Perché nella politica contemporanea queste percezioni sembrano valere molto di più della realtà. E non soltanto, come potrebbe essere comprensibile, al momento delle elezioni. E infatti il neo primo ministro Draghi, nel suo recente intervento alla Camera dei deputati, parlando di un’altra dinamica spesso sovrastimata in Italia, la criminalità, ha detto una frase che dovrebbe preoccuparci: «È vero che i dati quantitativi sulla criminalità nel corso degli anni sono andati migliorando», ha detto Draghi, «ma la percezione che ne hanno i cittadini no. Deve essere la percezione a guidare l’azione, a stimolare un’azione sempre più efficace».

Un motivo in più per cercare di aggiustare ciò che non va nel mondo dell’informazione.

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