L’ultima settimana di libertà

Mascherine che non si infilano, turismo che chiude e auto che non si vendono, le ultime ore prima del lockdown.

4 Marzo 2021 15:40

Più ci avvicinavamo all’inizio della fase critica della prima ondata della pandemia, un anno fa, più aumentava l’ingorgo di notizie allarmanti che arrivavano dall’Italia (in realtà da tutto il mondo) e che saturavano piano piano la nostra capacità di assorbirle.

Il 25 febbraio del 2020, mentre l’allora primo ministro Conte dichiarava che il focolaio italiano era nato a causa del mancato rispetto del protocolli sanitari negli ospedale — adesso sappiamo che in realtà il virus circolava già anche in Italia da molto più tempo — iniziavano sia le prime teorie sull’origine dell’infezione, che accusavano il commercio di animali selvatici in Asia, sia le prime indagini sulle speculazioni e le truffe riguardanti le mascherine (a proposito, ti ricordi che all’inizio ci eravamo convinti che non fossero così utili?) e il gel disinfettante, entrambe le cose praticamente introvabili in quei giorni.

In quelle ore, a farla da padrone sui social erano notizie tipo quella dell’esplosione di un focolaio all’interno di una setta religiosa in Corea del Sud, che per qualche giorno fece parecchio impressione, anche se poi, come sempre, non se ne parlò più. Iniziavamo ad avere cose più urgenti e vicine a cui pensare.

Intanto, mentre in Italia si raggiungeva la cifra all’epoca allarmante di 650 positivi (a pensarci adesso fa impressione eh?), il governo decideva le prime misure economiche per far fronte alle chiusure nelle zone rosse, si iniziava a parlare sul serio di smartworking, a Milano il Salone del mobile veniva rinviato a giugno, a Venezia venivano sospese le riprese di Mission Impossible 7, la Presidenza del Consiglio smentiva che sarebbero state chiuse le scuole, dimostrando il fatto che, pur mancando poche settimane ai camion dell’esercito pieni di bare che sfilavano a Bergamo, ancora non sapevamo minimamente che cosa ci dovevamo aspettare.

Nel frattempo, anche se si comincia a parlare del primo vaccino sperimentale per fermare la pandemia, iniziano a intuirsi le prime vittime industriali del virus: per il turismo, ad esempio, si inizia a intravedere una brutta fine, quanto meno sul breve periodo, e mentre Seychelles, Iraq e Giordania introducevano restrizioni ai viaggi da e verso l’Italia per il coronavirus, una nave da crociera della compagnia italiana MSC Crociere veniva respinta da due porti caraibici per timore del contagio (attraccherà in Messico poco dopo) e alcune compagnie aeree cominciavano a bloccare i voli per Milano. Il futuro sembra molto poco roseo anche per un altro settore portante dell’economia industriale mondiale, quello della automobili. Mentre dalla Cina arrivavano dati disastrosi sulle vendite di febbraio (si parlava di 92 per cento in meno di vendite) proprio in quelle ore, il Salone dell’auto di Ginevra veniva annullato a causa della pandemia. Il motivo dell’ultima volta che era stato annullata? La seconda guerra mondiale.

Se di tutte queste cose non hai conservato alcuna memoria non preoccuparti, è normale. È l’effetto del bombardamento a cui siamo sottoposti ogni giorno, un fuoco di fila che fa sparire le notizie, anche e soprattutto quelle importanti, sostituendole a gran velocità. In questo flusso interminabile, paradossalmente, ci sono invece dettagli che ci ricordiamo, anche se possono sembrarci lontani ricordi sbiaditi dal tempo e anche se riguardano fatti completamente marginali e inutili rispetto a tutto il resto.

Ti riconosco, mascherina

Un esempio? Quella settimana fu quella in cui il presidente della regione Lombardia Attilio Fontana, costretto all’isolamento fiduciario dopo che una delle sue assistenti era stata testata positiva al coronavirus, si lanciò nell’ardito tentativo di infilarsi una mascherina di fronte alle telecamere. Fu una scena patetica, e malgrado l’assoluta inutilità e inconsistenza del fatto, soprattutto in confronto a quello che stava succedendo intorno, di quella brutta scena scommetto che ci ricordiamo tutti. Ma ci torniamo tra poco.

Su ogni tipo di media il discorso sui virus diventa egemonico: tutti ne parlano e di conseguenza se ne sentono di sempre peggio, e se le parole dell’arcivescovo emerito di Milano Angelo Scola, che rassicura “dietro il coronavirus non ci sono castighi divini”, possono fare sorridere, fa meno ridere lo sgangherato piano anti pandemico dell’ex presidente americano Donald Trump che si dimostrerà per molti mesi in tutta la sua potenzialità fallimentare.

Mentre ci tenevamo occupati con tutte queste news, legate all’istante, superate ogni ora da quelle successive o semplicemente utili soltanto a farci perdere tempo in polemichètte e sarcasmo, il mondo ovviamente non si fermava, nonostante la pandemia, e noi ci perdevamo la consueta carrellata di cose che sarebbe stato importante considerare un po’ di più: guerre di religione, questioni legati ai migranti, parità di genere. Dinamiche che durano purtroppo molto più di una ondata di emergenza. A Delhi, per esempio, durante scontri violentissimi tra induisti e musulmani, muoiono 20 persone; a Lesbo, durante le proteste contro l’apertura di centri di detenzione per migranti, 62 persone rimangono ferite; a Roma, senza che si riesca a capire il perché, vengono staccate le utenze alla Casa delle Donne Lucha y Siesta, rischiando di mandare in mezzo alla strada alcune delle ospiti della casa, donne sfuggite a situazioni di violenza.

Il sarcasmo non fa più ridere: inquina

Prendiamo spunto da uno dei fatti che abbiamo appena ricordato, quello risalente giusto giusto a dodici mesi fa quando il presidente della regione Lombardia Attilio Fontana fece una figura barbina cercando di infilarsi la mascherina in maniera alquanto maldestra e facciamo qualche considerazione sul perché, dietro a un contenuto del genere e alla sua diffusione, troviamo uno dei malanni della comunicazione contemporanea, uno di quelli che questa rubrica si prefigge di individuare e cercare di aggiustare.

Quel contenuto video, di per sé insignificante, divenne infatti in poche ore virale e scatenò un’ondata di sarcasmo notevole, su social, televisioni, carta stampata. Eravamo praticamente tutti lì a guardare Fontana e a deriderlo. Ci sentivamo superiori, come è normale quando si utilizza il punto di vista ironico, che all’opposto di quello drammatico, si mette sempre al di sopra delle cose di cui parla per ridimensionarle. Ma oltre a guardare la cosa dall’alto, in questo caso emerse un vero e proprio intento derisorio, vòlto all’umiliazione di Fontana, umiliazione e derisione che sono esattamente le cifre stilistiche del sarcasmo, quelle che lo differenziano dall’ironia e dalla satira. È proprio per questo che il sarcasmo, tra l’altro sempre più diffuso su ogni social, inquina l’ecosistema, infetta la comunicazione e abbassa qualsiasi possibilità di dibattito.

Perché ne parliamo proprio oggi? Perché questa è ormai una costante della comunicazione a tutti i livelli, da quello giornalistico — pensa agli attacchi a Di Maio sul suo passato, arrivando a chiamarlo Bibitaro — a quello politico — un esempio di queste ore è il post sarcastico di +Europa in seguito alla sostituzione del commissario Arcuri — fino a quello personale — un ottimo esempio è il tweet che sta girando molto in queste ore e che fa del sarcasmo sulla nomina del generale Figliuolo al posto di Arcuri utilizzando degli screenshot del suo profilo Facebook, messo alla berlina in quanto ridicolo.

Ci sono tanti motivi che dovrebbero spingerci a smettere di utilizzare questo approccio comunicativo in pubblico, e sono tutti validissimi. Dovremmo smettere prima di tutto perché i sentimenti di reciproca superiorità sono il terreno più fertile dell’odio e del disprezzo, nonché il metodo più efficace per trasformare il terreno in un campo di battaglia. Ma dovremmo smettere di trattare gli altri con sarcasmo, chiunque essi siano, anche perché nell’ormai totalmente polarizzato terreno della politica, il sarcasmo può soltanto allontanarci gli uni dagli altri, rendendo sempre più difficile qualsiasi efficace comunicazione, che per sussistere ha bisogno di un clima di rispetto reciproco minimo.

Siamo impantanati a tutti i livelli e lo saremo sempre di più: dal punto di vista climatico, energetico, economico, sociale e politico. Non ne usciremo mai se continuiamo a minare le fondamenta della convivenza, fondamenta già provate negli ultimi anni e nelle cui crepe è cresciuta e si è diffusa una sorta di diffidenza reciproca e sarcasmo generalizzato che rischia di portarci oltre il punto di non ritorno.

Questa è la nuova puntata di Fixing News, un progetto di Blogo in collaborazione con Slow News. Esce una volta a settimana e se vuoi saperne di più puoi cliccare qui per leggere il “manifesto”. Se invece vuoi ascoltare questo articolo in formato Podcast, lo trovi subito qui sotto, (ed anche su Spreaker, Spotify e sulle altre piattaforme). Se hai suggerimenti, idee, richieste per le prossime puntate, scrivici a fixingnews@blogo.it.

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