La morte degli eroi

Un’epidemia si trasforma in pandemia, i soliti gravissimi problemi di sempre e le nostre chiacchiere sul nulla

pubblicato 28 Gennaio 2021 aggiornato 1 Febbraio 2021 17:44

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Un anno fa, la notizia grossa veniva dalla Cina, anche se ancora non avevamo capito l’entità dell’impatto che avrebbe avuto sulle nostre vite, e pezzo per pezzo emergeva e si allargava. Il 21 gennaio vennero segnalati altri morti per le infezioni da nuovo coronavirus. Il 22 il bilancio aumentava, mentre a Wuhan iniziavano ad essere prese misure di contenimento. Il 23, mentre l’Oms dichiarava ancora che il problema coronavirus non era ancora un problema di rilevanza internazionale, il governo cinese cancellava tutti i grandi eventi pubblici del Capodanno cinese per evitare la diffusione del coronavirus e tre città vengono messe in quarantena. Il 25, invece, veniva annunciata la costruzione in tempi record — 10 giorni — del primo ospedale dedicato soltanto ai malati di coronavirus.

In realtà di altre notizie “grosse” continuavano ad essercene, come continuano ad essercene tutt’ora, ma ci entravano da un orecchio e ci uscivano dall’altro e, viste oggi, ci ricordano ancora una volta come il giornalismo mainstream faccia fatica a dettare delle vere priorità nel nostro immaginario, o nella nostra coscienza, se ti piace di più metterla giù così. In Australia continuavano i gravi incendi che ne stavano distruggendo, in modo importante anche se non quantificabile, la flora e la fauna; l’ISIS si dotava di un nuovo capo a sostituzione di Al Baghdadi, ucciso da un raid a fine ottobre del 2019; in Francia i movimenti sociali di protesta — in questo caso contro la riforma delle pensione — non si sopivano affatto, anzi; centinaia di migranti continuavano ad attraversare il Mediterraneo e necessitavano di soccorso in mare; e lo smog continuava a soffocare le grandi città italiane.

Ma noi di cosa parlavamo? Come al solito, le polemiche politiche sul niente troneggiavano e assorbivano ore e ore delle nostre giornate. In particolare, una su tutte, che rivista ora ti farà l’effetto di quei ricordi che ti sembrano lontanissimi anche se sono in fondo molto recenti: Salvini che, durante la campagna elettorale per le elezioni regionali in Emilia Romagna, accusava un ragazzo di spaccio tramite il citofono, ma, soprattutto, che lo faceva a favore di telecamera e poi lo spammava su Facebook (il post poi venne rimosso). Successe un putiferio. La vicenda in sé fu molto triste, anche se tritata dal web e risputata sotto forma di meme, qualche sorriso ce lo strappò lo stesso.

Non solo. Mentre dalla Cina le notizie sul coronavirus si aggravavano, iniziava il grande circo del complotto globale, che all’epoca ci faceva sorridere e che ora, ahinoi, sta diventando un problema.

So long Kobe

Ma mentre come abbiamo visto il timore per quella nuova forma di coronavirus che ora conosciamo fin troppo bene si stava insinuando poco a poco nelle nostre menti attraverso le notizie che arrivavano dalla Cina, e tutto il resto proseguiva come terribilmente al solito una notizia sconvolse il mondo della cultura pop.

Il 26 gennaio, un elicottero con nove persone a bordo precipitò a Calabasas, a nord ovest di Los Angeles. Tra le vittime, una in particolare garantì che quello non fosse un giorno come tutti gli altri e che quella notizia in pochi minuti facesse il giro del mondo: Kobe Bryant, 41 anni, giocatore dei Los Angeles Lakers, icone del basket americano (ma anche in qualche modo anche italiano) che muore nell’impatto insieme alla figlia Gianna Maria, di 13 anni.

È stata una notizia terribile per molti e non solo suoi tifosi o sportivi. Se te lo ricordi, e crediamo proprio che te lo ricordi, quel giorno (e quelli dopo) ti ricorderai che abbiamo vissuto la sensazione di un vero e proprio lutto condiviso a livello globale, un lutto immerso in un flusso di contenuti che spuntavano da ogni parte. Un lutto globale per una tragedia globale, e per il giornalismo una occasione classica per fare click.

Probabilmente, del periodo che ha anticipato lo scoppio dell’emergenza COVID e fino alla morte di Diego Armando Maradona, non c’è stata un’altra notizia che così tanto ha segnato l’opinione pubblica e questa nostra reazione ci insegna qualcosa sia sul giornalismo che su di noi, ma ci permette soprattutto di individuare una grande regola del giornalismo e della comunicazione. Se non ti spaventa il parallelo matematico: potremmo parlare addirittura di una legge universale dell’emotività dell’informazione.

La legge è questa: la nostra reazione emotiva di fronte a un fatto o a una dinamica è direttamente proporzionale alla prossimità di quel fatto o di quella dinamica alla nostra quotidianità e, nello stesso tempo, è inversamente proporzionale alla durata e alla persistenza nel tempo di quel fatto o di quella dinamica, mentre la scala assoluta e condivisa di valori, di priorità e di gravità ha un impatto molto marginale.

Cosa significa? Che ci colpisce con più forza e più nel profondo la morte, un evento semplice e improvviso, di una pop star di cui seguiamo da anni le gesta e che risiede stabilmente nel nostro immaginario, anche se magari non abbiamo mai visto una partita di basket, piuttosto che la crisi climatica, un evento complesso e di lunga durata.

Non è per sentirci in colpa che dobbiamo capire questa equazione, né per indignarci, né tantomeno per bandire i coccodrilli (che nel gergo giornalistico sono gli articoli che parlano dei morti) dal giornalismo. Ma pensarci e farci caso ci serve per cercare di capire cosa possiamo correggere in un modo di fare informazione che evidentemente non ci fa né stare meglio né ci aiuta ad affrontare la realtà, che sia quella di oggi o quella di domani.

In un bel saggio pubblicato in Italia da Guanda nel 2014 che si intitola Le notizie: istruzioni per l’uso scritto dallo svizzero Alain de Botton, c’è una pagina che parla proprio di questo fenomeno, che lui inquadra come celebrity news. Il suo ragionamento parte dal fatto che le celebrità sono diventate l’equivalente della mitologia greca, ma che, a differenza di quella mitologia, che ci serviva per tramandare un’etica e dei valori fondanti, la nostra nuova mitologia dei VIP adagiata sul format giornalistico del gossip, si priva completamente della parte costruttiva, e trasforma la galleria di questi personaggi leggendari in icone che durano il tempo di un’emozione e che si susseguono una dopo l’altra, partecipando ognuna dell’oblio dell’altra e lasciandosi giusto giusto il diritto di tornare, rigorosamente per gli anniversari, solo per sfruttare ancora un po’ la scia di quell’emozione.

Il problema più grosso, che è il punto dove scavare, è che a questa modalità del narrare per sostituire e per poi dimenticare tipica delle celebrity news abbiamo adattato l’intero universo delle informazioni. In questo modo arriviamo a trattare qualsiasi altra cosa, dai disastri naturali fino alla già citata emergenza climatica, di cui il giornalismo parla solo quando accade qualcosa di eclatante, ma evita di trattare l’argomento in maniera sistemica senza nemmeno provare a creare in noi un immaginario, ovvero, per tornare alla equazione di cui sopra, per renderci familiare quella dinamica, per ricordarci che ci riguarda da vicino.

Per qualcuno la soluzione probabilmente è separare nettamente l’informazione di “intrattenimento” da quella di “servizio”, ma avrebbe poco senso. In realtà la soluzione più efficace sarebbe uscire dalla logica economica attuale del giornalismo mainstream, ovvero smetterla coi modelli di business che funzionano vendendo agli investitori pubblicitari l’attenzione di chi legge e che si misura in click. Per passare a cosa? A una economia di finanziamento che sostituisca l’economia della sponsorizzazione, un finanziamento sia diretto in forma di sottoscrizioni, sia in qualche modo pubblico, nei modi illuminati raccontati da Julia Cagé nel suo saggio Il prezzo della democrazia (se vuoi ascoltarla l’abbiamo intervistata durante uno degli Slow News Days e la puoi rivedere quando vuoi).

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