Su eutanasia e suicidio assistito in Italia

Trent’anni fa Jack Kevorkian veniva processato per aver assistito dei suicidi. Qual è, ad oggi, la situazione sulla “dolce morte” in Italia?

4 Febbraio 2021 16:01

5 febbraio 1991: il dottor Jack Kevorkian viene processato per aver assistito una serie di suicidi su pazienti affetti da gravi patologie. Dopo una prima assoluzione – a causa della mancanza di leggi pro o contro il suicidio assistito – anni dopo verrà condannato per omicidio di secondo grado, e la sua attività gli varrà il nomignolo – suggestivo – di Dottor Morte.
Kevorkian, dal canto suo, durante la sua attività accompagnò 130 pazienti verso la “dolce morte”, anche a seguito della revoca della licenza da medico.

“Morire non è un crimine” era la sua frase simbolo, e la sua filosofia era molto chiara: il paziente doveva essere malato terminale e in grado di intendere e di volere, esprimendo chiaramente il desiderio di morire. Inoltre, l’intero iter doveva durare non meno di un mese, e il paziente doveva essere in grado di attivare lui stesso i macchinari che lo avrebbero portato alla morte.

Non si trattava dunque di eutanasia, ad essere precisi, ma di suicidio assistito: in quest’ultimo caso è, appunto, il paziente ad assumere la sostanza o attivare il macchinario che lo porterà alla morte, mentre nel caso dell’eutanasia è il medico ad agire in prima persona.

Nel caso di Kevorkian fu proprio un unico caso di eutanasia a valergli la condanna per omicidio.

Il caso Cappato

A fare maggiore scalpore sui media nostrani fu il suicidio assistito di Fabiano Antoniani – DJ Fabo -, con le conseguenti accuse nei confronti dell’attivista Marco Cappato, autodenunciatosi. Cappato aveva infatti accompagnato Antoniani in una clinica svizzera dove l’uomo, reso tetraplegico a seguito di un incidente, avrebbe posto fine alla sua vita.

Questo avveniva il 27 febbraio 2017, e il 25 settembre 2019 la Corte Costituzionale si è espressa chiarendo che chi “assiste un suicidio non è sempre punibile”, aprendo, di fatto, la strada alla legalizzazione del suicidio assistito.

E in Italia, ad oggi?

Ora, torniamo in Italia, nel 2021. Qual è, ad oggi, lo stato dell’eutanasia – e del suicidio assistito?
La situazione è piuttosto complessa, non solo dal punto di vista etico.

Il 31 gennaio 2018 è entrata in vigore la legge sul testamento biologico in Italia, con il quale il singolo può – anticipatamente – decidere se e a quali trattamenti dare il proprio consenso, in caso di una possibile incapacità futura di comunicare o di decidere.

L’eutanasia è considerata un reato mentre, di per sé, il suicidio medicalmente assistito in Italia è ad oggi considerato un diritto. Anche grazie alla sentenza sul caso Cappato.
Tuttavia, secondo l’Associazione Luca Coscioni, “non vi è una legge che stabilisce precisamente i doveri dello Stato” in materia.

Ad ogni modo, il diritto è riconosciuto a chi è:

  • Affetto da patologie irreversibili, fonti di gravi sofferenze
  • Dipendente da trattamenti sanitari salvavita, ovvero trattamenti in assenza dei quali la persona non potrebbe sopravvivere
  • Pienamente in grado di intendere e di volere

Come prevedibile, però, la mancanza di un iter preciso rende le cose particolarmente difficoltose, soprattutto per le singole ASL.
Risale allo scorso ottobre il primo rifiuto da parte del Servizio Sanitario Nazionale, decisione considerata in diretta contrapposizione al diritto sancito dalla Corte Costituzionale.

Insomma, un diritto “sulla carta” che, a causa di svariati buchi legislativi, non sempre viene garantito.

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