Come siamo mes?

Le notiziole della prima settimana di dicembre 2019, quelle che se ne sono già andate via, quelle che duravano il tempo di maturazione di una banana, quelle che invece ci portiamo appresso ancora oggi. E il criterio di “notiziabilità”

10 Dicembre 2020 13:44

Questa è l’undicesima puntata di Fixing News, un progetto di Blogo in collaborazione con Slow News. Esce una volta a settimana e se vuoi saperne di più puoi cliccare qui per leggere il “manifesto”. Se invece vuoi ascoltare questo articolo in formato Podcast, lo trovi subito qui sotto, (ed anche su Spreaker, Spotify e sulle altre piattaforme). Se hai suggerimenti, idee, richieste per le prossime puntate, scrivici a fixingnews@blogo.it.

Negli States fu la settimana del ritiro dalla corsa per le elezioni presidenziali americane di Kamala Harris, che nel frattempo è diventata la prossima vice presidente degli USA, ma anche della richiesta formale di Nancy Pelosi di iniziare a redigere le accuse di impeachment contro Trump.

In Italia, intanto, venne effettuato il primo test del MOSE dopo la catastrofe di qualche settimana prima e di cui parlammo anche qui su Fixing News.

Tra gli aggiornamenti di quel genere di notizie a lunga gittata che di solito tendiamo a perdere di vista ci fu la bocciatura del piano per l’ILVA di Taranto di ArcelorMittal (anche di questo avevamo già parlato qualche tempo fa). Mentre per la serie “come vanno a finire cose di cui ci siamo completamente dimenticati”, quella fu la settimana della grazia concessa da Mattarella a Umberto Bossi per condanna per vilipendio ricevuta per aver dato, nel 2011, del “terrone” a Giorgio Napolitano. E anche della dichiarazione di incostituzionalità della “legge anti-moschee” approvata nel 2015 dalla Regione Lombardia.

Nel frattempo le catastrofi climatiche non si fermavano mica: l’Australia bruciava ancora, in Kenia altre persone morivano a causa delle alluvioni, noi italiani scoprivamo da un rapporto pubblicato il 4 dicembre di essere al sesto posto al mondo per numero di vittime dovuto a eventi meteorologici estremi negli ultimi 20 anni. Intanto, a livello mondiale, quello che si stava per chiudere era il decennio più caldo di sempre, ma a livello social faceva più discutere la dichiarazione di Salvini che annunciava di non voler più mangiare una nota crema spalmabile alle nocciole italiana, per via delle nocciole turche al suo interno.

Ti sei magnato la banana

Detta così, ora, a distanza di un anno, suona abbastanza assurdo, se non grottesco visto tutto quello che abbiamo dovuto vivere negli ultimi dodici mesi, eppure una delle notizie che ci ha fatto più discutere e che ci ha più polarizzati e divisi della settimana dell’Immacolata del 2019, esattamente un anno fa, riguarda una banana. Già, proprio una banana, una vera, quella che l’artista Maurizio Cattelan appiccicò con del nastro adesivo alla parete dello stand della Perrotin’s Gallery all’Art Basel di Miami (USA) e che intitolò «Comedian».

Te la ricordi? Forse ti ricorderai anche che a partire da quella banana ci eravamo scannati su che cosa fosse l’arte, su come fosse possibile che l’opera valesse 120mila euro, e condividemmo e commentammo decine e decine di meme. Forse ti ricordi anche come finì, quella banana, qualche giorno dopo la sua apparizione. Finì che arrivò un altro artista, David Datuna, la staccò dal muro e se la mangiò. Poi pubblicò il video dell’evento su Instagram e gli diede pure un titolo: “Hungry Artist”. Una triste fine per un’opera d’arte, no? Ma se ora te la ricordiamo è anche perché c’è qualcosa, di questa storia, che parla anche di un modo bislacco di fare informazione di moltissimi media mainstream, che prendono un fatto, lo fanno sembrare la notizia del secolo e poi, dopo poche ore, se ne dimenticano e passano a quella dopo.

Successe così anche dal punto di vista dell’arte contemporanea, perché quella stessa settimana, iniziata a dibattere di banane, finì a dibattere di Banksy, ovvero quello che per l’arte contemporanea è una notizia jolly che vale sempre. Era il 9 dicembre e una nuova opera di Banksy fece la sua comparsa su un muro di Birmingham.

Nel frattempo, lontano dai riflettori della stampa mainstream, il progetto artistico di Cattelan con la banana sta proseguendo e ha anche un suo profilo Instagram.

Ma come siamo MES?

Ti ricordi quando è stata la prima volta che hai sentito parlare del MES, il Meccanismo Europeo di Stabilità? Probabilmente no, perché del MES si parla praticamente da dieci anni. La prima decisione sulla sua costituzione fu presa tra il 9 e il 10 maggio del 2010 dal Consiglio Ecofin (ovvero il Consiglio Economia e finanza), quello composto dai ministri delle finanze degli stati membri. Fu poi confermato dal Consiglio europeo del 25 marzo 2011 e in Italia fu ratificato nel mese di luglio del 2012.

Per quello che è (uno strumento complesso di politica economica sostanzialmente di lungo termine) e per quello che rappresenta (uno dei punti su cui i programmi dei partiti antieuropeisti più giocano le loro carte) il MES, dal punto di vista mediatico, è un oggetto molto particolare.

È difficilissimo, per i tempi di manovra che lo caratterizzano e per la complessità degli elementi in campo, sintetizzarlo in un titolo o parlarne nel quadro degli spazi angusti dei social. Proprio per questo viene utilizzato semplificandolo e schierandocisi contro, da molte forze politiche e, di conseguenza, anche dai giornali che spesso da queste forze politiche sono dipendenti o che sono rappresentanti mediatici degli interessi che quei partiti difendono. Oppure, semplicemente, che ne diffondono le dichiarazioni.

Nei quasi dieci anni della sua storia, sul MES ci si sono scannati tutti, e, politicamente, il giudizio su esso è cambiato notevolmente, soprattutto negli ultimi mesi: è proprio attraverso la riforma del MES, su cui il parlamento italiano ha votato ieri, che verranno distribuiti gli aiuti per fronteggiare il post pandemia in Europa. In Italia sono almeno due anni che i voti sul MES sono in balia delle maggioranze che si sono formate attorno alla figura di Giuseppe Conte. E sono almeno due anni e che il governo sembra rischiare sempre di cadere per questo. Anche in questi giorni.

Giusto giusto un anno fa sui giornali si parlava proprio di una crisi potenziale tra Di Maio e Conte proprio sul MES, mentre su Twitter si faceva largo un hashtag – #italexit – che, letto oggi, fa venire la pelle d’oca. Te lo immagini gestire la più grave crisi sanitaria della storia contemporanea con l’Italia fuori dell’Unione Europea?

E alla fine ci parlate di Bibbiano?

Quella settimana, tra le pieghe della cronaca, apparve anche la decisione della Corte di Cassazione di revocare l’obbligo di dimora per il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, che era stato indagato in quella che è ormai diventata una delle inchieste più celebri degli ultimi anni, sul presunto sistema truccato di affidi di minori nella città di Bibbiano, in provincia di Reggio Emilia.

Il caso Bibbiano, che a un certo punto divenne un vero e proprio tormentone, proprio per la piega mediatica che ha preso ·— i meme, le polemiche sui social, i lanci e rilanci politici, i “Parlateci di Bibbiano” e le teorie del complotto — sembra essere scoppiato da un decennio, e invece è nemmeno un anno e mezzo fa. Per ricapitolare puoi leggere il riassunto fatto da Valigia Blu o dal Post, mentre una pagina sui Wikipedia in italiano non c’è (c’è in spagnolo, francese e, ehm, sardo).

Ma ora? A che punto siamo? Siamo alla terza udienza preliminare, che si è svolta il 23 novembre 2020 nell’aula bunker del tribunale di Reggio Emilia. La terza udienza sarà settimana prossima, il 17 dicembre.

Il dovere di cambiare il criterio di notiziabilità (e il tuo diritto di pretenderlo)

Nel suo libro “Teorie delle comunicazioni di massa”, Mauro Wolf definisce così la notiziabilità: «l’attitudine di un evento a essere trasformato in notizia». Sul Devoto Oli, invece, la definizione è questa: «Il complesso delle caratteristiche che rendono un evento di particolare interesse per i media».

C’è una cosa che manca a queste definizioni: il fatto che il processo di trasformazione di un evento in notizia, il suo interesse per i media, non è un fatto di natura. È una scelta. O almeno, è tale per quanto riguarda tutti coloro che hanno il potere di decidere cosa è rilevante per te.

Se vuoi approfondire questo tema, Alberto Puliafito, il direttore di Slow News, ha fatto una lunga chiacchierata con Antonio Pavolini, analista e ricercatore dell’industria dei media e autore del libro «Unframing – Come difendersi da chi può stabilire cosa è rilevante per noi».

Che cosa possiamo dire qui, in breve?

Che chi produce informazione e ha tanta visibilità ha il potere di fare delle scelte rispetto agli argomenti di cui parlare. Scelte che, inevitabilmente, condizioneranno in qualche modo la conversazione. Più visibilità hai, più queste scelte avranno un impatto.

Questo vale storicamente per le testate giornalistiche, per tutto ciò che è “di massa”. Più recentemente vale anche per singole persone, creator di contenuti sulle piattaforme più disparate, influencer, giornaliste e giornalisti, uomini e donne della politica.

Ecco allora che chi ha questo potere – che di questo si tratta – dovrebbe comprenderne la responsabilità e agire di conseguenza. Come si può pretendere che la conversazione pubblica sia di alto livello, se i grandi media si concentrano su una banana? Come si può pretendere che le persone siano pronte al cashback se si parla della App IO due giorni prima dell’entrata in vigore del provvedimento e non si agisce sul lungo periodo?

Nell’era della sovrabbondanza dell’informazione abbiamo, come produttori di notizie e di contenuti, un dovere nei tuoi confronti. Il dovere di scegliere bene le informazioni che ti diamo, gli argomenti di cui parliamo. Abbiamo, in altre parole, il dovere di cambiare il nostro criterio di notiziabilità. E tu hai il diritto di pretenderlo.

Attualità