Affinità elettive

Le cose di cui parlavamo un anno fa (ancora ignari del disastro) ed una cosa di cui parleremo ancora: la legge elettorale, noi siamo per il proporzionale.

21 Gennaio 2021 19:00

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Esattamente un anno fa non eravamo ancora preoccupati sul serio per quello che sarebbe diventato il nostro mostro quotidiano, l’argomento che iniziava e concludeva ogni nostra conversazione, sia mediatica che sociale. Non eravamo ancora allarmati noi, ma soprattutto non lo era ancora l’OMS, che il 12 gennaio scriveva in un report cose che ora fanno accapponare la pelle: «Secondo le risultanze dell’investigazione epidemiologica preliminare la maggior parte dei casi sono legati a lavoratori o frequentatori del marcato di Huanan. Il governo cinese riferisce che non ci sono prove chiare che il virus passi facilmente da persona a persona. Al momento nessun caso di infezione di questo nuovo Coronavirus è stato rilevato in luoghi diversi da Wuhan».

Eppure, il 16 gennaio del 2020, dalla Cina arrivò al notizia del secondo morto ufficiale per quella strana epidemia di polmonite atipica, come ancora la chiamavamo, che pareva originata da un mercato del pesce di Wuhan. E non solo. Malgrado l’OMS pochi giorni prima affermasse che non c’erano casi della malattia fuori dai confini della città di Wuhan, in realtà il virus girava già. Conferme di nuovi casi arrivavano proprio in quelle ore dal Giappone, e un paio di gironi prima, il 14, il primo paziente in Thailandia segnava la fuoriuscita dell’epidemia dai confini cinesi. Era l’inizio della pandemia.

E intanto noi a cosa pensavamo? Di cosa discutevamo? Di cosa parlavano i giornali e cosa ci occupava il tempo nelel nostre discussioni sui social?

L’argomento più forte di quei giorni, almeno dal punto di vista degli esteri, erano le ricadute dell’incidente aereo che aveva coinvolto un aereo ucraino mentre decollava dall’aeroporto di Teheran in Iran, l’8 gennaio precedente. Ti ricordi? Era no i giorni in cui ci eravamo convinti che stesse per scoppiare la terza guerra mondiale. Gli Stati uniti avevano ucciso il generale Suleimani e per ritorsione l’Iran aveva bombardato delle basi americani in Iraq. Ma non solo, a un certo punto l’aeronautica iraniana aveva scambiato un aereo di linea ucraino per un missile e l’aveva abbattuto. era il volo 752 della Ukraine International Airlines e ci viaggiavano 176 persone. a quel punto in Iran scoppiò una mezza rivolta popolare contro il regime che fece preoccupare i vertici della repubblica islamica.

Ecco, la settimana del 14 gennaio cominciò con l’annuncio da parte dell’Iran di diversi arresti dei presunti responsabili dell’errore e di un imminente processo in diretta internazionale per punirli. Come è andata a finire? Dal lato nostro che quelli che dovevano essere i dieci giorni che avrebbero sconvolto il mondo ce li siamo completamente dimenticati, e dal lato iraniano? Del processo non si sa nulla, i parenti delle vittime non hanno ricevuto alcun risarcimento e sono ancora in cerca di risposte.

Nel frattempo, il mondo non si fermava — quando mai lo fa — e nemmeno il rullo compressore di news 24 ore su 24, che inevitabilmente, come stiamo documentando dall’inizio di questa rubrica, fanno di ciò che accade nel mondo un gigantesco calderone quasi sempre senza priorità né gerarchie, quantomeno non “editoriali”. Se una volta l’algoritmo era umano — il direttore di un quotidiano e i suoi caporedattori — e le prime pagine dei quotidiani segnavano l’agenda e dettavano le gerarchie tra le notizie, oggi l’algoritmo è digitale, l’agenda è dettata sostanzialmente da ciò che più clicchiamo, condividiamo, commentiamo.

E quindi, intanto che in quei giorni scorrevano notizie come il mancato accordo per la tregua in Libia o la ripresa delle operazioni militari americane contro l’ISIS in Iraq, o come la trattativa di FCA e Foxconn per produrre auto elettriche per il mercato cinese, o, per restare nel piccolo e vicino, come la chiusura della libreria Paravia con tutti che per comodità e compiacenza accusano Amazon (che come abbiamo dimostrato nella nostra serie Piuttosto mi Amazon in realtà non è affatto il colpevole diretto della crisi delle librerie italiane), noi occuapavamo il nostro tempo sui social a dibattere di, ehm, festival di Sanremo.

Il festival è il festival, certo, ma soprattutto la polemica è la polemica, e quando Amadeus disse una frase completamente inopportuna alla conferenza stampa di presentazione, la polemica divampò e ci intrappolò per qualche giorno tra tifoserie avverse e una pioggia di meme, con qualche interruzione per seguire la polemica grammeliniana sulla scuola che avrebbe affermato sui suoi social di dividere gli studenti per “ceto sociale”.

È importante ricordarsi di queste cose, sai perché? Perché quando ci siamo in mezzo alla fine anche se pensiamo di essere vaccinati contro le polemiche sul nulla, queste ci intrappolano. È a vederla a distanza — e ora noi, un anno dopo, abbiamo la prospettiva perfetta — che ci rendiamo conto di quanto fosse inutile tutto quel tempo a parlare del niente e di quanto tempo e quante energie ci sottrae.

A dimostrare ancora una volta che il mondo non è ciò che accade sui giornali, questa settimana non c’è prima pagina che non parli della crisi del secondo governo Conte, del ruolo di Renzi, di Mastella che telefona a Calenda, di Salvini che invoca le elezioni e di Meloni che urla dimissioni. Certo, ci sparano sempre addosso il conto dei morti, dei contagiati e ora anche dei vaccinati, con mappe in tempo reale e polemiche su ogni fialetta sprecata, ma delle cose che contano veramente per il nostro futuro, che ne so del green new deal, di nuove politiche industriali che siano più coraggiose e meno conservatrici di continuare a dare soldi alla Fiat, di come usare i fondi del MES e altre decine di fondi europei che giacciono inutilizzati per magari innovare sul serio questo paese nemmeno l’ombra.

Fatevene un ragione, la vera democrazia non è maggioritaria

Lunedì 18 gennaio, il primo ministro Giuseppe Conte è intervenuto alla Camera dei deputati promettendo che «Il governo si impegnerà a promuovere una riforma elettorale proporzionale, quanto più possibile condivisa, che possa coniugare le ragioni del pluralismo con l’esigenza di assicurare stabilità al sistema politica», riaccendendo così la madre di tutte le polemiche politiche in Italia: il sistema elettorale.

Maggioritario o proporzionale? In realtà questa dicotomia non risolve nemmeno tutta la questione, visto che ad oggi la legge elettorale italiana è una delle più complesse al mondo e non né pienamente maggioritaria né pienamente proporzionale. Si chiama legge Rosati, dal nome del deputato del Partito democratico Ettore Rosato, ma ne avrai sentito parlare quasi sempre parlare con il nome di Rosatellum. È un sistema di ripartizione complesso e bizantino, che assegna il 36 per cento dei seggi con un sistema maggioritario e il 64 per cento con un sistema proporzionale. Se hai voglia puoi approfondire qui.

Ma non è sempre stato così. Dalla fondazione della Repubblica nel 1946 fino al 1993, con una sola eccezione, nel 1953, in seguito alla cosiddetta Legge Truffa, che introdusse senza riuscirci un premio di maggioranza, il parlamento italiano è sempre stato eletto tramite una legge proporzionale pura. E poi?

Nel 1993, pochi mesi dopo il terremoto politico di Tangentopoli, gli italiani vennero chiamati a partecipare a una serie di referendum, in larga parte proposti e sostenuti dal Partito Radicale di Marco Pannella, ma anche, per la parte che ci interessa, dal ex DC Mario Segni. I primi puntavano a una riforma elettorale che portasse l’Italia verso il modello anglosassone, totalmente maggioritario, basato su un sistema uninominale a un turno: in ogni collegio, chi prende più voti vince il seggio. I secondi, invece, che nel 1988 avevano formato il Manifesto dei 31, puntavano a un sistema a doppio turno ispirato dal sistema francese.

Da quel momento, le polemiche e i dibattiti sul tipo di modello da adottare non son praticamente mai finiti e in tanti, da una parte e dall’altra dello schieramento politico, hanno sostenuto l’esigenza di un sistema maggioritario (ognuno con le sue sfumature, alla francese o alla britannica) per garantire la governabilità del paese.

Nella lista dei propugnatori del maggioritario, dopo Segni e Pannella, si può ascrivere Romano Prodi che, da sempre sostenitore di questo approccio, l’ha ulteriormente sottolineato in una lettera aperta pubblicata dal Corriere della Sera nel 2019, nella quale ribadiva la sua «netta preferenza per il maggioritario» sottolineando che «una legge elettorale non è fatta per fotografare il Paese, ma per dargli una maggioranza di governo possibilmente stabile». A favore di questo sistema è stato stato anche Matteo Renzi – almeno nella sua prima stagione — che nel 2013 affermava di voler imporre una legge elettorale di questo tipo, come poi in realtà voleva tutto il PD, salvo poi tornare sui suoi passi.

A sostenere il maggioritario di questi giorni c’è anche Salvini, che non ha mai nascosto il suo pensiero, sintetizzabile nel motto “Chi vince governa, chi perde non rompe le palle”, e che nel settembre del 2020 dichiarava: «noi puntiamo a una legge elettorale che dia stabilità, penso alla legge regionale, al maggioritario, invece con la proporzionale è il caos».

Secondo tutti, il sistema proporzionale sarebbe la causa di tutti i mali della politica italiana. Lo si accusa di impedire la governabilità del Paese, di togliere ai cittadini il diritto di eleggere il governo che vogliono, di rendere il trasformismo parlamentare (ovvero la libertà di ogni parlamentare di votare secondo coscienza e non secondo il volere del partito che lo ha eletto) una pratica abituale, di impedire il governo di fare vere riforme e, sostanzialmente, di bloccare le attività parlamentari rendendo i governi schiavi dei gruppi di minoranza.

Eppure tutti quelli che lo propongono si dimenticano una serie di cose abbastanza importanti: a cominciare dal fatto che l’essenza stessa della democrazia è esattamente la proporzionalità della rappresentanza dei cittadini, o che l’Italia è stata costituita volutamente come una repubblica parlamentare, il che vuol dire che il suo baricentro non è il governo, ma il parlamento. Per un paese come l’Italia, da sempre frammentato, e che in più usciva da una guerra civile, non aveva il minimo senso imporre un sistema che cercava sostanzialmente di ricreare due schieramenti opposti e inscalfibili — come i democratici e i repubblicani negli USA – dentro il parlamento.

Anche una sentenza della Corte costituzionale, la n. 35 del 2017, ribadisce e conferma la natura della nostra repubblica parlamentare: «in una forma di governo parlamentare, ogni sistema elettorale, se pure deve favorire la formazione di un governo stabile, non può che esser primariamente destinato ad assicurare il valore costituzionale della rappresentatività».

E si capisce, perché al di là dei motivi intrinseci che hanno portato l’assemblea costituente a scegliere il proporzionale puro, ci sono anche motivi più profondi e che hanno a che vedere con la natura stessa di una democrazia: la stabilità del governo, per esempio, sbandierata da chi sostiene la necessità di un sistema elettorale totalmente maggioritario non è affatto una prerogativa della democrazia e non ne garantisce per niente la sopravvivenza. Anzi. D‘altronde il governo più stabile possibile in fondo è un regime totalitario. La stabilità non comporta affatto che un regime sia giusto, libero e democratico.

La prerogativa di una democrazia è invece tutto il contrario. È inclusione e confronto. Perché queste sono le basi per costruire una società che non lasci indietro nessuna istanza e assicuri a tutti la rappresentanza.

Il maggioritario va bene per gli stadi, dove le posizioni sono due e si affrontano dovendo vincere una sull’altra. Nei parlamenti, le posizioni sono tante, e non è previsto che una vinca sulle altre. Di più, non serve che una vinca sulle altre. Probabilmente non l’avrebbero chiamato parlamento se non fosse il luogo in cui ci si confronta intorno a un tavolo. Un luogo dove non si fanno leggi a colpi di maggioranza per cinque anni di seguito – addirittura ormai a colpi di decreti legge – per poi, grazie alla politica dell’alternanza tanto auspicata dai fautori del maggioritario, smontare tutto e ricominciare da capo. Il parlamento deve essere un luogo dove ci si siede a un tavolo e non ci si alza fino a quando non si trova un compromesso che valga a tutti i rappresentanti il diritto di tornare dai propri rappresentati sapendo di aver conquistato tutto il conquistabile.

L’alternanza politica è una illusione, se non una truffa. Perché in un sistema maggioritario va a finire, soprattutto in tempi di populismi, a diventare qualcosa di poco distinguibile da una alternanza di sostanziali dittature. Ne vediamo un ottimo esempio ora in America, dove Trump per 4 anni ha disfatto pezzo per pezzo ciò che ha fatto Obama e ora Biden disferà pezzo per pezzo ciò che ha fatto Trump. Se calcoliamo l’avanzamento politico in termini assoluti gli Stati Uniti d’America negli ultimi 8 anni sono rimasti fermi: ad ogni passo avanti c’è stato un passo indietro.

In un vero regime democratico in cui è il parlamento è il baricentro — come dovrebbe essere in Italia, visto che siamo una repubblica parlamentare e visto he siamo un Paese che storicamente è formato da migliaia di micro-realtà diverse e assolutamente non compatte — l’alternanza non ha alcun senso. Ha senso invece il compromesso, il confronto continuo tra istanze diverse, e se il risultato sarà un avanzamento relativo poco importa, perché ogni piccolo passo non avrà, in teoria, alcun passo indietro.

Un procedimento politico del genere è lento e probabilmente, dal punto di vista comunicativo, noioso e di conseguenza è scarsamente notiziabile. Forse è per questo che ci siamo convinti che vada sostituito con il suo contrario? Può essere, ma stiamo attenti, perché il maggioritario è funzionale al tifo, alla contrapposizione forte, ma è anche propedeutico a cose che possono sembrare efficaci, rapide e univoche, ma lo sono a tal punto da non essere più in alcun modo democrazia.

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